IL CONTO ALLA ROVESCIA, LO SPETTACOLO DELL’ ESPLOSIONE: “ZOOLOFT”, McKENZIE.
di Saverio Marasco
Tanta confusione, tante inquietudini, molte
pluralità.
Simbolista sì, ma attraverso immagini precise,
nitide, semplici. Figure separate che si ritrovano nello stesso tema, con lo
stesso sfondo, con la stessa missione.
Stessimo parlando della copertina di un disco,
staremmo certamente parlando di Zooloft (2021, Black Candy Records) dei
McKenzie, trio post-hardcore Lametino, nonché miei piccoli eroi personali.
I McKenzie sono Renato
Failla, Luca Vittorino e Francesco d' Amico e la copertina del loro ultimo
disco – opera di Pasquale de Sensi – racchiude perfettamente lo spirito delle 8
canzoni di Zooloft.
Zooloft è un album sicuramente più pensato rispetto ai 2 lavori precedenti – l’EP d’esordio del 2016 e “Falena” (2018, Black Candy Records) – , che suona più strumentale rispetto a quanto ci hanno abituato finora, ma in un senso ben preciso: tutto è più corale, più ampio, più amalgamato e funzionale.
Complice e protagonista di tutto ciò è sicuramente la registrazione dell’album
in presa diretta, che dà al disco un suono più sporco, cupo e monolitico:
chiudendo gli occhi, sembra di sentire gli sbuffi d’aria fuoriuscire dalle casse,
dagli amplificatori, dalle corde vocali. La sala dello GRS STUDIO di Lorenzo Buzzigoli, insieme al missaggio di Carlo Scali,
fanno sì che gli strumenti – voce e parole comprese – risuonino insieme, abbracciando
contorni inediti per la band; i McKenzie si ritrovano ad utilizzare piccoli
e raffinati inserti sonori che, oscillando con precisione attorno al loro posto,
creano la base perfetta per ogni nota pestata nell’album: penso a “Rosa m”, che ne è l’esempio perfetto.
Lo stile dei McKenzie si affina e personalizza sempre di più, come se quell’omuncolo
nerboruto e contorto – che chiameremo col nome di fantasia di “Sergio” – fosse
cresciuto e si guardasse intorno; il trio Lametino prende ciò che ha imparato
dal disco precedente e lo implementa con un'ottica nuova, non più rivolta
all'immensità dell'introspezione, bensì alla realtà appena fuori l’uscio di noi
stessi, tutta arruffata e pronta a prenderci di mira.
Menzione d’onore per i due featurings –“Varenne” e
“Murene” – con Nicola Manzan (Bologna Violenta, Ronin, e tante altre cose
di cui abbiamo parlato varie volte, per nostra fortuna), che impreziosiscono
il disco con la guest giusta; Manzan fa la differenza soprattutto in “Murene”, traccia
che chiude l’album, con quel il violino che finalmente spacca il pezzo in due, ritagliandosi
il ruolo della lacrimuccia buona in una spirale di musica incattivita che, in
mezz’ora, non ha fatto altro che scandire i secondi che ci separavano
dall’esplosione catartica finale e da quel «sangue
in testa» che ci fa scoppiare le tempie ma, contemporaneamente, sentire
vivi.
Canzone dopo canzone, secondo dopo secondo, ogni pezzo si incastra
perfettamente all’incupirsi dei nostri giorni, e così Zooloft inizia e passa in fretta: comincia direttamente con la title track, senza fronzoli, e continua senza un pezzo che sia fuori
posto, senza una canzone che sia superflua, senza una nota che sia spuria: è
semplicemente la copia carbone di un gruppo che, in un mondo di pantomime, mi
colpì per il loro salire sul palco ed andare come un treno per 40 minuti, senza
fermarsi, senza indietreggiare e senza perdere di vista ciò che davvero conta:
una manciata di canzoni, una dopo l’altra, suonate senza un attimo di respiro,
sempre sul filo del rasoio.
Un conto alla rovescia, una miccia che brucia in fretta quei pochi centimetri
che ci separano dalla deflagrazione:
questo è Zooloft, questi sono i
McKenzie, e questo è quan...BBOOOM!!!
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