FANTASMI FUTURI / IL MONDO NUOVO: "SCATOLA NERA", SCATOLA NERA


di Davide Caligiuri

 

Cosa pensate sia la memoria?


Su questa domanda, durante il Novecento, sono nate decine di correnti filosofiche, letterarie, psicologiche: una domanda apparentemente semplice, come sempre, è quella in realtà la più difficile a cui rispondere.


Scatola Nera, uscito da poco per Labellascheggia / Costello’s / Artist First, è un disco legato in più modi al concetto di memoria; sia nel nome stesso, metafora chiara del conservare tracce del passato, sia nello stile e nei riferimenti, che si rifanno proprio a quelle correnti del Novecento che, volenti o nolenti, han vissuto intorno a questo concetto.

Non si tratta di citazionismo bieco, né di richiami vaghi: la struttura stessa del disco, ogni scelta sonora, lirica, e concettuale, è intrisa di riferimenti rielaborati e fusi fino a produrre qualcosa di nuovo, ma plausibilmente disperso temporalmente fra oggi e cento anni fa.

Andiamo ad esplorarlo insieme.



[remnant #33], [remnant #3], [remnant #45], [remnant #28] sono quattro gradevoli quanto sfuggenti intermezzi, a metà fra la lounge music e cafè parigino, che dividono il disco in quattro stanze, l’ultima rimasta aperta sul futuro che sembra negare.


Terra senza pioggia è il biglietto da visita: un delicato arabesco di suoni anni ‘20 che accompagnano un cantato cantautorale, che racconta per immagini sconnesse un nessun-luogo dove la pioggia non arriva e il tempo si è dimenticato come muoversi. Melodie sofisticate senza essere barocche, un’allegria nostalgica che sembra volerci abbracciare, richiami letterari.

Tekeli-li! è il corrispettivo introspettivo, malinconico del pezzo precedente: richiami ancora più espliciti alla letteratura d’epoca, strumenti a corda e pianoforti che accompagnano la storia di un viaggio dove il fallimento diventa realizzazione.


Strada chiusa evoca la rassegnazione della sconfitta di ieri, e la dolcezza agrodolce dell’eterno dopo. Il tocco cantautorale si intensifica ancora di più, rispetto alla già più cantautorale Tekeli-li!

Arrivati a questo punto del disco, inizia ad apparire lo spettro dell’ancora vivo Paolo Conte a dominare sulla scena e sulla commistione di sound da camera con testi espressionisti.

Scatola nera #1, una delle chiavi d’interpretazione del disco, gioca colla simbologia della scatola nera, apparizione fugace nelle strade di una Milano senza passato né futuro. Il sound è di nuovo ricco di riferimenti culturali: pianoforti e ottoni conducono le linee melodiche principali e miscelano con sapienza gli altri elementi in un mix praticamente inattaccabile.


L’elefante è un pezzo che farebbe crepare d’invidia De Gregori e Guccini; una semplice e splendida linea di chitarra elevata dall’accompagnamento, che sfocia in un ritornello che brilla di luce propria.

La contessa Salamandra suona come il contraltare malinconico di L’elefante: anche qui il ritornello traina il pezzo, ma risulta nel complesso meno memorabile e meno riuscito del suo predecessore. Pezzo, per me, più debole del disco.


Il pescatore di perle è un pezzo dolcissimo, esempio perfetto di quando la musica riesce a trasmettere il significato del pezzo ancora più del testo. Pianoforti e fiati creano un perfetto contrappunto, ricco di nostalgia e sentimento.

Scatola nera #2 chiude in bellezza. Riprendendo in parte Scatola nera #1, fra metafore e riferimenti, questo pezzo cavalca una strumentale molto più allegra e positiva, quasi ironicamente positiva vista l’atmosfera del disco. Lo speech finale, che sembra quasi disperdere il disco senza volerlo chiudere, è forse una delle trovate che più apprezzo. Tutto perfettamente bilanciato.


Che dire? Scatola Nera si configura, ad ascolto completo, come un progetto estremamente coerente e coeso, nato da influenze largamente differenti. Le strade percorse non sono completamente nuove: da loro stessi è citata molto l’influenza di The Caretaker, ma anche autori come Fleet Foxes e Andy Shauf sono spiritualmente molto vicini a questo disco. In ogni caso, l’idea di unire cantautorato, sonorità vintage con piccole chicche tecniche e compositive che riescono a esaltare il “vecchio” del suono, mettendo in evidenza la sua vecchiezza piuttosto che cercando di nasconderla nel citazionismo/revival: ecco, questo connubio funziona davvero bene e apre a un’infinità di possibili sviluppi, per sua natura reinventandosi continuamente.


I riferimenti culturali (io ne ho potuto riconoscere a Eliot e Poe principalmente) così come l’idea di richiamare il concetto di hauntology, son tutti inscritti dentro la narrazione, ne diventano un elemento quasi irriconoscibile e che assume significati nuovi e differenti. Questo disco mostra un certo lavoro concettuale nel rappresentare sia a livello sonoro che lirico un mondo passato ma indistinguibile, uno spazio grigio in cui ogni epoca può entrare e uscire senza lasciare il segno. Così come la memoria muta e trasforma ciò che viene ricordato, lo confonde, mescolandolo a mille altre esperienze e appiattendo il tempo all’interno delle nostre menti: Scatola Nera è sottile, nascondendo la maggior parte del suo peso concettuale nei dettagli, nelle scelte di stile, offrendo al lettore la possibilità di percepirlo o di fermarsi semplicemente all’innegabile abilità tecnica che il quartetto milanese dimostra.


Il giusto spazio va dato, dunque, anche alla produzione e agli aspetti tecnici del disco: si può parlare dell’invecchiamento subito da parte delle registrazioni (non campionamenti), una delle chicche che preferisco del disco, come anche della cura nel dare ai suoni un tono quasi dimesso, che ne preservi le qualità e le caratteristiche. Non a caso, buona parte della produzione del disco è stata gestita dagli stessi membri del gruppo, presso il Supermoon, salvo il mastering compiuto presso l’Eleven Mastering. In generale, anche in questo si riflette la sopraccitata solidità concettuale del disco.



Tirando le conclusioni, Scatola Nera non è un disco assolutamente perfetto: su alcuni aspetti si percepisce una certa monotonia di fondo, la performance vocale è adeguata ma forse sottotono rispetto al resto, e alcuni pezzi son più ispirati di altri. Tuttavia, son fattori minori: il disco rimane estremamente solido, e oltretutto di facile ascolto, cosa piuttosto rara per i dischi che recensisco. La scelta dei generi di riferimento, più la cura del dettaglio che non ha dato adito a sperimentazioni troppo ardite, rende pezzi come L’elefante o Terra senza pioggia adatti anche a una rotazione radiofonica, nel giusto periodo e con le giuste premesse. Un bellissimo biglietto da visita quindi, un invito in una Milano unreal city: un invito che ci teniamo a rigirarvi, sperando che tutti voi possiate apprezzare e, come noi, vogliate aspettare e vedere se questa piccola visione darà altri frutti.


shiantih shiantih shiantih

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Artwork di Giacomo Capolupo



 

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