LO AVREI PRESO A SCHIAFFI MA – Ep.1: MIKE PATTON È USCITO DAL GRUPPO
di Saverio Marasco
Mike Patton. Michael Allan Patton. Eureka, California. 27 gennaio 1968. È giusto partire da te per inaugurare questa rubrica in cui, fondamentalmente, parlerò di Artisti o Gruppi che, se dapprima detestavo, ora adoro. E tu, mio caro demonio delle Murder Mountains, sei l’archetipo di tutto ciò che si può odiare così tanto, ma così tanto, da arrivare ad amare.
Partiamo dall’inizio.
Il primo ricordo che ho dello zenit dell’odio nei tuoi confronti è colpa di una certa signorina che scrive per questa Cinghialesca Webzine. Come diavolo si può, ad un neofita non pronto anche sulla più “semplice” musica d’avanguardia, fare ascoltare un gruppo come i Mr.Bungle? Come potrebbe capire a cosa si trova davanti? Perché sì, Patton è certamente arrivato alla gloria con i Faith No More, ha sicuramente sfornato album con qualsivoglia formazione e qualsiasi stile, musicato e violentato dall’ardore e dalla poliedricità del soggetto – il suo pensiero al riguardo è di avere un’unica immensa band con cui fa mille cose diverse, per tenerlo sempre in movimento – ma la sua band sono loro: i Mr. Bungle. Sempre.
Ed è stato altrettanto divertente (ed illuminante) sapere che quella canzone, proprio quella canzone che mi ha fatto urlare in macchina << BASTA! CHE È STA MERDA?!? >>, sia stata “Squeeze me Macaroni” dei Mr.Bungle (1991 – “Mr.Bungle”), pezzo funky, elettronico, jazz, sperimentale, metallaro, che ora ascolto almeno una volta al giorno.
Ma perché sono arrivato ad adorare questo gruppo? Perché iniziavo a praticarlo un po’, il funky; perché sono cresciuto, perché ho capito che la produzione musicale di Patton, così vasta, è per ogni momento della vita. Cresce con te, anzi: intorno a te. Non potrai essere pronto oggi per un album come “Pranzo Oltranzista” (1997 - Mike Patton - Tzadik Records) ma hai a disposizione “The Real Thing” dei Faith No More, esordio nel 1989 di Patton con il gruppo. Ascoltalo. I know the feeling.
Probabilmente lo apprezzerai ma non apprezzerai l’universo Patton. Non ancora. Ti serve un momento ben più specifico e qualificato: l’attimo in cui, al massimo del tuo odio nei suoi confronti, segretamente ascolti quell’unico suo pezzo che, con vergogna, ami. L’attimo in cui riconosci Mike Patton come uno stronzo. Il Re degli stronzi. Ed in un mondo di stronzi, il migliore di loro non puoi non adorarlo.
Questo momento per me è conciso con l’ascolto di una versione live di “Urlo Negro”. Vedere Patton che esegue una canzone d’autore del bel canto all’italiana – di questo si parla nelle 11 tracce di “Mondo Cane” (2010/Ipecac Recordings) – circondato da un’orchestra (capitanata da Roy Paci) che si diverte a guardarlo cantare in scream vestito come il dandy più sbruffoncello di metà anni ’50, con il diavolo negli occhi e nella voce, ti da immancabilmente quel desiderio inconscio di essere lui.
Wow. Da lì era entrato. E non se ne sarebbe più andato. Maledetto.
Poi susseguirsi di upgrades: per prima cosa macinare i singoloni dei Faith No More, poi l’aggressività dei Tomahawk, lo stile inaspettato dei Peeping Tom ed infine la canzone più pesante della storia: “Der Golem” (2001 - “The Director’s Cut”) dei Fantômas, super-gruppo composto niente po' po' di meno che Patton, Trevor Dunn dei Mr.Bungle, King Buzzo dei Melvins e Dave Lombardo degli Slayer. Non so se avete capito bene: Mike Patton, Trevor Dunn, Buzz Osborne e Dave Lombardo.
Ma è corretto parlare di “fine” per un soggetto musicale del genere? Mai. Mai perché Mike Patton, come già detto, crescerà con te: non potrai mai capire né il personaggio a pieno né tutta la sua costante produzione musicale sempre in continua evoluzione – tra i più recenti: “1922”, colonna sonora per l’omonimo film di Zak Hilditch del 2017 (riadattamento del racconto di Stephen King) e “Corpse Flower” del 2019 (con Jean-Claude Vannier) – proprio perché il suo scopo, il suo desiderio, è stupire. Lasciare a bocca aperta. Confonderti. Passare dal beat-box all’hardcore alla lirica.
Stupire e trattenere qualsiasi ascoltatore attraverso i tentacoli delle sue eccellenti collaborazioni: John Zorn, The Dillinger Escape Plan, Björk, Sepultura, Serj Tankian etc. Così, dal nulla. Perché si diverte. E l’odio nei suoi confronti lo diverte più di tutto, ne è famelico: è così che il suo mojo si gonfia.
Di genere in genere, di riferimento in riferimento, di pagina in pagina, Patton evade da liceo di provincia triste e montana da cui proviene, con il gruppetto formato con gli amici delle superiori, per scegliere in qualsiasi momento e situazione di voler essere ricordato come una delle figure più iperboliche, grottesche e perfettamente incontrollabili della storia non del rock, non del metal alternativo, ma della musica.
E sapete perché ora lo amo, al di là dei generi, della spettacolarità e delle doti artistiche?
Perché lo odio ancora.
Perché l’energia che trasmette, sotto forma di qualsiasi grottesca emozione, diventa parte di te.
Perché davvero in pochi saranno un giorno al suo livello.
Perché di certo non potrò mai capirlo come merita.
Perché a me, i Wolfmother, piacciono.
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