GUARDARE SENZA VEDERE: IL MAR ADRIATICO COME “BARAFONDA” DEGLI UNOAUNO


di Saverio Marasco  
 
Il litorale Adriatico dovrebbe essere il più lungo d’Italia. Se non il più lungo, è sicuramente il più dritto, dai. Va dal limo della foce del delta del Po’ al bianco delle spiagge pugliesi, passando per il grigiore classico dell’acqua affollata di Rimini.  Terre marmariche che tengono testa ai freddi Balcani, distanti solamente nella misura di uno stretto limbo d’acqua salata. I sanguigni abitanti di queste zone regalano a milioni di turisti la loro vita duranti i mesi estivi, per il dono del silenzio invernale, nel quale riecheggiano i suoni della quotidianità misti al rumore delle onde infrante a riva durante i giorni di brutto tempo.  
 
Se c’è qualcosa che un album dovrebbe riuscire a fare in musica e parole – soprattutto se scritto in italiano – è quello di restituire il caos inglobato staticamente in una giornata qualunque.  
 
Sei ore di fila. Fermi. In coda. Sul grande raccordo anulare. Con questo frame si apre Barafonda” (2019 - Ribéss Recordsdegli Unoauno, trio math rock-noise-post qualcosa formato da Rocco, Mauri e Giangi 
La prima traccia del disco, Autobahre, è una descrizione amara delle attese della quotidianità. La pesantezza sonora viene interrotta dalla dolcezza dei synth e, già alla partenza, capiamo che ci troviamo davanti ad un math rock più distorto e più poetico, più sfuggente nei suoi cambi di tempo. 
Batterie cupe, dritte, anticipano un riff altrettanto cupo ma specularmente sgranato ed ambientale, seppur tanto pestato. Riflessioni sulla mareggiata rendono “La Pietra” un pezzo più allegorico e teatrale del precedente. Le parole diventano distorte ed urlate quando la dinamica strumentale si abbassa. 
Barafonda” inizia già ad essere un litorale regolare ma frastagliato, in cui le dinamiche ed i chiaroscuri si alternato continuamente. Toni più sommessi, più calmi e cullanti. “Nessuno” ci dice chiaramente che <<in discariche di televisori si fanno largo gli intrattenitori>>, compiendo un’analisi dell’intrattenimento sociale che va ad uccidere l’homo novus, già seppellito dalla sua vita tranquilla e dalle proprie colpe. Il sound è sempre evocativo e sgranato, come se provenisse davvero da qualcosa di fondo: il merito, oltre al trio, va sicuramente sia a Franco Naddei (che si è occupato della registrazione e del missaggio delle tracce) sia a Roberto Villa – di cui ricordiamo una bellissima serata passata tra il Cinghialozzo ed i Ronin – che, all’AmorMioNonMuore/Cosabeat studio, si è occupato del master del disco. 

Tornando alla costa adriatica, a detta del gruppo, li ha uniti un filo rosso da Rimini a Molfetta. Gli Unoauno nel quarto pezzo – “Costa Adriatica”, per l’appunto – descrivono la provincia del litorale nel suo grigiore, quando i turisti sono andati via da un po’ e rimangono gli indigeni, intenti ad annegare nel mare d’inverno che si abbatte sulle spiagge vuote. È questa la vera bara fonda che dà il nome al disco. 

Subito dopo, un minuto e trenta urlato e veloce. “Panorama”. Il pezzo più hardcore dell’album. Sento in lontananza echi di uno stoner dei più moderni e fuzzosi, ma è già finita prima di accorgersene. Che botta che è stata, precisa per preparare il campo a “Rivoluzioni”. Basso greve. La voce che guarda fissa in un punto. Sembra uno di quei pensieri che si fanno quando si guarda qualcosa di indistinto, senza vedere. Sto scrivendo gli appunti su questo disco, e penso di aver trovato il titolo adatto: “Guardare senza vedere”. Perché? Perché i pezzi degli Unoauno fanno un po’ così, nel sound e nelle parole – in certi momenti mi sembra di ascoltare quel Giovanni Lindo Ferretti avviato verso la maturità autoriale – dove tutto si nasconde e non si fa vedere, ma dove tutto  la netta sensazione che qualcosa la si stia guardando. Qualcosa di forte, sempre dentro quella sensazione di sgranato e confuso, ma qualcosa di reale. Storie di strade dissestate cariche di nostalgia.   

Parlando ancora di basso, tocca precisare che questa band nasce proprio basso e batteria. I due strumenti creano una base musicale che si completa in continuazione: tanto più è precisa e dritta la batteria, tanto più il basso sarà lento ed imponente, quasi un organo. Quando si scambiano i ruoli – spesso ed inaspettatamente, come in “Diane” – restituiscono quel caos giornaliero di cui si parlava all’inizio. Caos bellissimo e pensato. Un ossimoro perfetto quello degli strumenti di Rocco e Mauri, che sorprende l’ascoltatore mentre, andando verso la fine del disco, le liriche diventano sempre più evocative, sempre più lontane dal reale descritto nei primi pezzi del full-leght. Ma l’attenzione ai temi più bassi e grotteschi della società, dei rapporti umani, con qualsiasi forma venga utilizzata, resta al centro del discorso della band. 
La scrittura, usata come elemento centrale della produzione degli Unoauno, è metaforica senza strafare, dimodoché si creino immagini che scorrono tra di loro in maniera veloce e violenta, che rallentano solamente in spazi ben precisi: “Balene” ne è un perfetto esempio. 

L’album chiude con “Non ci siamo mossi di un passo”. Sembra che qui la natura di “Barafonda” emerga in tutto il suo splendore: un reading violento, cantato solo per la foga che scorre in gola al lettore; una foga sacrale, un requiem all’immensità grigia dell’Adriatico d’inverno. Si interrompe di botto, si ritorna a vedere. 
Quello di “Barafonda” è quindi un modo di vedere, di intendere la vita stessa. Caotica nei pochi colori – come il rosso, il nero ed il bianco della copertina a cura di Elena Guidolin –   che, infondo, sono quelli giusti ed essenziali per dipingere, poco a poco, quel senso di smarrimento che un’intera generazione di provincia ancora non sa come descrivere bene, se non con ritmi strani e poesie urlate.  


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