“Song of Mercy and Desire”: Una Sciamana su cassa dritta.

 



di Saverio Marasco 
 
Ironia della sorte, il primo disco di cui mi sono trovato a scrivere per il Cinghialozzo è stato un disco bluegrass, folk, insomma di musica Roots. Aveva una copertina gialla, al centro colori che sapevano prendere l’attenzione: un artwork ben fatto e particolare. 
Songs of Mercy and Desire” (2018 – Pitshark Records) di Elli de Mon, invece, ha una copertina in bianco e nero. Su una stradina di campagna, prima della boscaglia, Elisa – nella foto di Simone Carollo –  l’impressione, nell’ombra, di guardare l’ascoltatore dritto negli occhi. E questa è una grande assonanza con quel primo album Roots di cui parlavo all’inizio. Perché forse, questa musica, acustica e di grancasse dritte, ha proprio questo scopo.  

Con uno slide acido, distorto – quello del blues punk più crudo – Elli apre l’album. Louise” e “Let them out” sono un pugno riot dritto in faccia, per chiarire subito il punto: se vi aspettate solo ballate acustiche, non avete capito il blues.  
Una delle più antiche espressioni sul genere, da cui probabilmente ne deriva il nome, è "to have the blue devils" Avere i Diavoli Blu. Ed in questi pezzi il diavolo ci mette davvero un po’ lo zampino, in un garage di provincia forse un po’ incasinato, ma bello per questo. “Let them out” ha uno stile che adoro. Veloce e ritmato, cassa dritta pestata con tutta la forza di questo mondo, la voce distorta dall’effetto radio. L’impressione è di ascoltare i The Cramps con alla voce non un pazzo istrionico – come era Lux Interior – ma una sciamana SiouxCos’altro aggiungere? 

Ancora storditi dallo shock iniziale, il primo spazio più rilassato arriva alla terza traccia – “Riverside” – ed in quella subito dopo: “Elegy”. “Elegy” in fin dei conti è uno spiritual. Maledizione, un vero e proprio spiritual. Riletto come farebbe il miglior Mark Lanegan – ripescatevi il suo “Blues Funeral” del 2012 – con una distorsione sgranata e potente, ma soffice nell’amalgama con la voce di Elli. Chapeau 
Applauso che continua per “Chambal River”: questo pezzo mi stupisce. Leggo in giro che è un sitar quello che suona insieme alla chitarra. Il piegare la musica indiana al blues, usarla sapientemente con la solita venatura garage, è un colpo vincente: due sonorità così evocative –  già focalizzate nel 2017 nell’album Blues tapes: the indian sessions” (Pitshark Records) – seppur così geograficamente distanti, non possono che sposarsi alla perfezione in un matrimonio celebrato dai gorgheggi impossessati della onewomanband 
Ma in questo full-leght, Elli sa anche riprendere in mano classici del blues/bluegrass e stringerli a sé: “Wade the Water” è un pezzo tradizionale che Elisa si rigira tra grancassa, cimbali, rumorismo di fondo, voce distorta. Ed al diavolo tutto. Di “Grinnin’ in your face invece ne parlava Jack White in “It Might get Loud” – film culto del 2007 con White, The Edge e Jimmy Page – come la sua canzone preferita. L’originale è di Son House, suonata solo con voce e piede che sbatte sul pavimento. Elli la inizia rispettandone la natura, per poi seguire la sua, di natura. Che è elettrica. Ed alla propria natura, se si vuole fare questo mestiere bene, non si deve e non si può sfuggire. 
 
La tempesta blues-punk continua con “Storm”, in cui l’unica cosa vera, non distorta, è il battito delle mani che scandisce il ritmo insieme all’immancabile cassa. Il passaggio ad 1 minuto e 42” e la chiusura del brano li riascolterei in loop per ore. Ma la tempesta passa e si può gustare l’umidità serale con “Grandpa”, in cui la voce sincopata, ma sussurrata, unita alle note ciccate nel playing, restituiscono tutta l’autenticità del disco. Ma se il brano inizia in maniera standard, man mano che cresce si veste di un suono moderno grazie ad un semplice rullante – di quelli pestati per bene – ed una giusta linea vocale. 


A chiudere il disco, le tracce numero 10 ed 11. 
Nell’arpeggio di “Flow, il mood torna dolce e sussurrato, ma solo per un momento: senza perderne in dolcezza, il ritmo si riprende il suo spazio non con cattiveria, ma con necessità sonora più vicina al folk indipendente che al Mississippi. 
A concludere “Song of Mercy and Desire”una singola nota grave suona martellante. Si prende totalmente l’attenzione dell’ascoltatoreL’ultima traccia del disco, “Tony”, con i suoi 4 minuti è la più lunga dell’album e si apre così. La voce invocatrice (perdonerete il gioco di parole) di Elli si unisce a quella arrugginita di Matt Bordin – dal quale il disco è stato registrato e missato presso l’Outside Inside Studio di Montebelluna – nel cupo rito hoodoo. Oscurità e lingue di fuoco – o del Sax sempre di Bordin – si prendono la scena per chiudere l’album, e restiamo attoniti per un attimo. 
 
Dischi del genere, così crudi ma ben fatti, è complicato trovarne. Dire che mi sono divertito ad ascoltarlo, è riduttivo: punk e blues, ballate e spiritual, lap steel guitar e sax. C’è tutto quello che serve per raccontare quella stradina di campagna, prima della boscaglia, che nella provincia di Elli de Moon suona un po’ come un profondo sud U.S.A. rintanato in un garage sulle montagne. Nessun colore superfluo: il bianco ed il nero, nelle loro mille tonalità, possono dare già una tavolozza adatta a dipingere un ottimo quadro. Oppure no, chi se ne frega: qua si vuole solo pestare quella maledetta cassa dritta. 
 
P.S.: È già la seconda volta (se non terza) che scrivo di Dischi in cui mi capita di fare parallelismi con l’Hoodoo. La situazione diventa preoccupante. 

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Per Conoscerla Meglio
 ➡️  Elli de Mon | Pitshark Records | Ammonia Records | Corner Soul Events | Outside Inside Studio


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