Legno, circuiti e presa a bene: “Fiori” dei Wonder Vincent
Centrifugo – Arcobaleniche: ma che cazzo vuol dire? Quando però leggo la risposta di Andrea Tocci sulla poetica dei Wonder Vincent in “Fiori” (2015 - Wonder Vincent/Jap Records), riesco a cogliere in questa bislacca definizione tutto ciò che un gruppo del genere può insegnarci: che un ottimo album deve torcerti le viscere e che per farlo bene bisogna farlo insieme, come band, dormendo per settimane in sala prove. Fidarsi delle intuizioni reciproche, mi dicono.
Si sentono tutte in questo disco, secondo full-lenght della band umbra – Andrea Tocci alla voce, Luca Luciani alla chitarra e Andrea Spigarelli alla batteria – definito dai Wonder Vincent come un vero e proprio ago della bilancia, come << […] ciò che desideravo follemente in quel momento […] >> (Spigarelli).
Ed infatti, dopo il primo EP autoprodotto "Good News for Hard Times" (2011) e “The Amazing Story of Roller Kostner" (2013 – Wonder Vincent/Cura Domestica), sono riusciti a darci un album grossissimo e compatto, con tutte queste minuziose intuizioni sonore incastrate a regola d’arte in ogni pezzo, in ogni passaggio, in ogni congiunzione tra brano e brano.
Il disco inizia con l’apertura rarefatta di “Io No Italian Head”, ed in un batter d’occhio ci ritroviamo nel loro personalissimo Rancho de la Luna – il Jap-Perù studio – e capiamo già la grande dinamica del trio: charleston stoppato nel momento giusto, il timbro pieno ma sporco e vibrato della voce, il Wah che penetra la testa come una spada, affilatissima ed enorme.
Poi headbanging decisamente “Swag” per arrivare ad una delle prime perle dell’album: “Post to Me”.
Fuzz. Blues. La voce decisamente Grunge. Pesante e noise, acidissima. Siamo in fabbrica, un’ottima fonderia.
Poi prendiamo un attimo di pausa. Il respiro chitarra e voce di “Fine” si spalma tra luce ed ombra nell’intermezzo in cui emerge tutta la potenza di un gruppo che in tre lunghi tour prende fiato e si asciuga il sudore che si porta addosso: quello di tantissimi live – che li ha portati quasi ininterrottamente, tra il 2010 e il 2016, ad esibirsi tra i migliori live club e festivals Italiani – e di una scena poderosa come quella umbra.
Ed in questi tours – potete trovare tutte le date sulla loro pagina Facebook o sul loro sito – noto che c’è un gruppo di cui sento una simile evoluzione artistica e sonora nelle strofe della traccia numero 5, “Ebony”: i Bud Spencer Blues Explosion.
Fuzz, Blues, Ritmo. Lo stacco di batteria iniziale vale una vita intera. Forse questo brano è uno degli esempi migliori di una crescita musicale che nasconde tantissima musica 60s’ (<<Per quanto mi riguarda la miglior produzione musicale di sempre è quella che va dal ’65 al ’69>> dice Tocci), i migliori Melvins e tanta, tantissima attitudine sia punk che rock’n’roll pura.
Scorrono le canzoni, tra tempeste, invocazioni. Rallentiamo. Per un attimo ci rilassiamo in riva al mare (o al Trasimeno?) con il profondo slide di “Blow”, che si riempie e svuota di continuo seguendo l’incalzare delle onde, preludio al delirio di “Gelsomino”.
A questo punto, macinato più di metà album, possiamo già fare due conti sui Wonder Vincent: trio simbiotico in studio, parassiti del Groove, portano dentro influenze che l’ascoltatore difficilmente riuscirà a carpire se non direttamente dalle parole dei componenti che portano quest’album come già detto, nel cuore.
Un pezzo come “Trampoline Man", acustico e dall’inizio dolce e rilassato, a questo punto ci sembra strano, sospetto – Tocci mi parla di Cat Stevens tra i suoi ascolti d’infanzia ed addirittura dei Neutral Milk Hotel poi; Luciani di Crosby, Stills, Nash e Young – per un gruppo che ci sta abituando al puro magma sonoro. Ma questa ballad anomala, non ci mette molto per far riemergere il sound tipico e profondo del gruppo: ascoltare per credere. Intimismo che si mischia con l’acido che rivedremo ad esempio in “Old Jade”, storia verosimile della morte della bisnonna di Tocci: << Pensavo che forse è stata la prima volta che ho provato amore nella vita >>.
Dopo tutto questo arriva lei: “Spoon Rest”. La mia preferita. Ho pensato a lungo come parlane, ma alla fine ho deciso.
Tutto superfluo se non l’obbligo di guardare il video su Youtube – capirete l’universo Wonder Vincent e quel “centrifugo- arcobaleniche” iniziale – diretto da Tiziano Fioriti e subito dopo ascoltare il pezzo che più di tutti sento vicino a questo mondo sonoro: “Grease Box” (1993) dei sacrosanti T.A.D.
Gli ultimi due pezzi dell’album sono posizionati alla perfezione: la marcia macabra di “Doombo” ci porta ad “Hiwatha”, il requiem finale per questo disco.
Che è stato divertente, pesante e massacrante. Fuzz, Blues, ritmo e sudore vero.
Gli “occhi mistici” in cui si fa riferimento al testo ci guardano nell’atmosfera country che lava i panni nella sporcizia dell’epoca d’oro del fuzz – anche Johnny Cash ha avuto vita nuova quando è stato prodotto da Rick Rubin – per completare l’ultimo rito doom di questo album. Andrea Tocci è posseduto, si contorce, urla dell’Homo Spiritualis ritrovato nella sacralità di un rito HooDoo fatto di danze intorno ad amplificatori bruciati. Poi solo il feedback. Tagliente. Pieno. Interruzione di segnale: i programmi (si spera) riprenderanno il prima possibile.
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Per conoscerlo meglio ➡️ Wonder Vincent | JAP Records | Jap-Perù
https://open.spotify.com/album/6yLRuiFSmX7GwsVjfqxkcx?si=4hMOgETjSLWzj7rX-P
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