LA PUREZZA DELLA TELA, LO SCONVOLGIMENTO DELLO SQUARCIO: “ORIGAMI”, ONE DYING WISH.
di
Saverio Marasco
Un urlo profondo, un squarcio nella asetticità del proprio
quotidiano, attraverso le emozioni più semplici e pure.
Che siano dolci, o violentissime, o inquietanti. In
una sola parola: piene.
Provare tutto questo è forse ciò che ci distingue dal
nulla e dall’essere vuoti involucri, rendendo inutile dire quanto rincorriamo
quella pienezza.
Inseguiamo gli sconvolgimenti buoni o cattivi con passo altalenante, correndo a
camminando, velocissimi e quasi fermi per il fiatone, verso l’interno, verso lo
squarcio della tela bianca alla base delle nostre realtà, per buttarci dentro
il varco ed entrare dall’altra parte del foglio: la parte di noi che conosciamo
benissimo, ma che non riusciamo ancora a descrivere.
Un’immagine perfetta per “Origami”, primo full-length
degli One Dying Wish, quartetto screamo/post-hardcore di Carmagnola, Torino.
Il Disco, che la band descrive come una raccolta di pezzi formatisi, riscritti
e rivisti per circa un anno e mezzo, arriva dopo il loro primo EP del 2018, “Paura
di Farcela”, ed è un infuso di empatia suonata tra il fortissimo ed il
lento, tra il caos e la semplicità, per un totale di poco più di 25 minuti,
ciascuno identificativo di tutto lo spirito di questo gruppo.
Un disco che parte di botto, mettendo in chiaro fin
da subito – parlo de “Il Male Minore”
– cosa aspettarci dalla band: un sunto screamo
della migliore scuola hardcore, di
quella che ha sempre strizzato l’occhio all’alt-rock;
insomma, un qualcosa che affonda le sue radici in una tradizione pura, ma legata
ai nostri giorni attraverso le inquietudini di oggi.
L’animo che ci spinge, continuando l’ascolto, è
frenetico, seppur di ampio respiro.
Le emozioni, fortissime, schizzano da un opposto all’altro: dalla purezza della
tela fino allo sconvolgimento dello squarcio.
Plauso al sound
di tutto l’album, che, insieme alla sua produzione e composizione, rende
possibile provare tutto questo.
La genuinità delle sensazioni suonate da questi ragazzi percorre il muro di
suono creato dalla band. Ci piomba in faccia, impetuoso, con tratti quasi mathcore, in un lavoro compatto a firma
Manuel Volpe, che ha curato mix e master del disco ai Rubedo Recordings Studios
di Torino, tirando fuori il meglio dalla band: un suono duro, profondo, un
pugno nello stomaco. Il trittico “Torna
da me” – “Mediterraneo” – “La strada di casa” dovrebbe, già da
solo, bastare a rendere quest’idea.
Ma c’è qualcosa in più.
Si inizia a capire in quel «chi siamo davvero se nessuno ci guarda?»,
quella inaspettata domanda che pongono gli One Dying Wish in “Contagio”: oltre al poderosissimo sound, il vero trait d’union del disco sono i testi.
Ogni brano, innanzitutto, ha il proprio manifesto, racchiuso in piccoli tesori
urlati: frasi veloci, semplici, pienissime di noi stessi.
Poi, seppur pezzi “raccolti” in questo disco, non
può non trasparire una certa idea, un certo modo di cercarsi attraverso quei
propri squarci, che siano fatti con la gola o con i chitarroni, per guardare al
di là della tela, piuttosto che dipingerla.
Perché per farci capire, prima di tutto, è necessario capire cosa c’è dentro e
dietro di noi, prendendone atto e coscienza. Urlano fortissimo se ce n’è bisogno,
onde lasciarci alle spalle la possibilità, sprecata, di spiegare i nostri
mostri: quando rimane unicamente il contorcersi lento del feedback finale della
già citata “La Strada di Casa”, è
ormai troppo tardi per pensarci su.
Ultima sorpresa del disco è il finale pregno di
bellezza, che ci regala la delicatezza che, in fondo, meriteremmo tutti: con “Come Origami” gli One Dying Wish
chiudono l’album, salutandoci e sparendo nello squarcio dentro la tela, verso
il meglio.
Grazie a quest’album, per il suo ostinato portarsi
avanti per quei 25 minuti.
Grazie a queste sei canzoni, per essere state la scusa perfetta di pensare un
po’ a sé stessi.
Grazie agli One Dying Wish, per aver fatto quel taglio sulla tela, che ci ha
permesso di guardarci un po’ dentro, piuttosto che guardare l’asettico bianco
della carta.
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