“DO YOU REMEMBER HOW WE CAME TO THAT PLACE?: SPANO. DI SPANO.

by Davide Caligiuri


Le contaminazioni e gli esperimenti han sempre catturato la mia attenzione; non i semplici crossover, ma le commistioni talmente profonde da far passare in secondo piano le varie origini.


Spano. (Love Boat/Liza), lavoro partorito dalle menti di Paolo Spaccamonti e Stefano “Fano” Roman, è una di queste commistioni: un lavoro strumentale che vive in un suo spazio personale, atipico e atopico, che finisce per avvicinarsi a lidi completamente diversi.


Spaccamonti chitarrista sperimentale, Fano produttore hip hop, entrambi con collaborazioni importanti nei rispettivi ambiti, si son uniti per creare un lavoro che pesca da entrambi i mondi senza appartenere a nessuno dei due.

Le chitarre e i campionamenti si scambiano di ruolo, si mescolano, si alternano in maniera pragmatica, fredda, poco teatrale ma molto, molto d’effetto.

Ogni pezzo sembra creare un’atmosfera diversa. Io ho provato a immaginarle.



Spano apre le danze con una vibrazione possente su cui si innesta beat, prima linea di chitarra, seconda linea di chitarra, in uno sviluppo semplice ma solido. L’uso di pause e interruzioni sulle varie linee è quasi un beat ulteriore, che crea struttura nell’orecchio dell’ascoltatore.

Immaginatevi il lancio di un razzo, visto dal punto di partenza.


Esther appare quasi come una continuazione del pezzo precedente: il beat rilassato, aperto, che alterna con la chitarra la dominanza dell’attenzione dell’ascoltatore.

Immaginatevi l’arrivo di un razzo, visto dal pianeta-destinazione.


Horace cambia le carte in tavola: ora la pulsazione diventa principale attore, e chitarra e batteria si fondono per creare un’unica struttura sonora.

Immaginatevi in un western confuso dagli effetti degli acidi.


A.s.e.e. apre di suoni bizzarri, che sembrano quasi avere base etnica (mi ricorda molto il lavoro di Darren Korb sull’OST di Bastion): poi la chitarra, angolata, tesissima, entra, dando una sensazione di tensione costante.

Immaginatevi soli in una miniera abbandonata.


Sheep inverte il pezzo precedente: rilassato dove l’altro teso, suoni sintetici che danno il tono mentre i brevi sprazzi di chitarra creano variazioni più ritmiche che armoniche, evolvendosi man mano che il pezzo avanza.

Immaginatevi in un’ascensore, ma senza sapere che secolo sia.


Crollo tradisce l’anima hip hop di Fano più di ogni altro, proprio per i campionamenti iniziali: la chitarra di Spaccamonti diventa morbida, quasi blues.

Immaginatevi pugili sul ring, ma su Alpha Centauri.


Gaetano presenta forse l’unica linea vocale del disco, sepolta in un campionamento anche questo dal sapore classicamente hip hop: la chitarra qui è di nuovo elemento ritmico, quasi un secondo beat inscritto su quello reale.

Immaginatevi in un ghetto in mezzo al deserto.


Anaconda chiude il disco con un sound oscuro, strisciante come il rettile che da il nome al pezzo: il beat oscillante, dove le linee di basso tracciano il percorso fra note distorte e sostenute e i synth punteggiano il lavoro creando un’illusione di spazio.

Immaginatevi a strisciare verso le vostre prede, sotto un cielo stellato.


 

Il disco si conclude è l’impressione che dà è chiara.

Brevi pezzi loop-based, senza fronzoli: in ciascuno, poche idee sonore vengono sviscerate fino in fondo, portate al loro limite senza doversi rivolgere ad abbellimenti o variazioni che potrebbero spezzare. Questo essere self-contained e compatto di ogni pezzo, creando atmosfere chiare e distinte (per quanto spesso irrintracciabili), diventando a sua volta cifra stilistca, porta (consapevolmente o inconsapevolmente che sia) tutto il lavoro ad avvicinarsi forse più al mondo delle colonne sonore, delle soundtrack, delle OST, che non agli ambiti musicali che in teoria lo avrebbero partorito.

E questa è l’impressione che si ha: un set di beat che in realtà diventa la colonna sonora di un mondo che non esiste più, o forse non è ancora esistito. Non è impossibile, considerato il background dei due musicisti, che in realtà questo effetto sia, se non voluto, quasi naturale: un’influenza diretta da una o più colonne sonore, o da una o più correnti cinematografiche, non è da escludere.

Ammettendo la mia non esagerata conoscenza, sopratutto per quanto riguarda il mondo del beatmaking hip hop, posso arrischiarmi a dire che ci sono influenze che sembrano quasi provenire dal prog italiano nello stile compositivo di Fano, soprattutto nell’uso dei sintetizzatori. Spaccamonti invece si muove sulle corde di quel post-rock angolare, che può essere associato a formazioni come Ulan Bator piuttosto che primi Massimo Volume, unito come questi ultimi dallo stesso approccio compositivo atipico, destrutturato, che crea più scene e sensazioni che non canzoni nel senso classico.

 

Il verdetto finale? Positivo come sempre: il disco è ottimo, breve ma consapevolmente, ricco di atmosfere fredde e indecifrabili, e sa guidare l’ascoltatore senza stranirlo. Un po' difficile consigliarlo come ascolto obbligato a chiunque: la sua natura sperimentale lo rende intrigante per cerchie ristrette di persone, mentre gli altri si troverebbero forse un po' dispersi dall’approccio dei due, ricco di scelte stilistiche e riferimenti provenienti da ambiti musicali già di suo di nicchia.

Attendiamo in linea futuri sviluppi del duo, sperando di sentire altri beat dall’oltre.

A presto.

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