Abstract
Non
ho la più pallida idea di quello che andrò a scrivere in questa recensione, né
di che piega prenderà; ciononostante, è necessario scriverla.
Abbiamo due ragazzi, Adam Rossi e Giovanni Zurlo, che a fine 2018 mettono su un duo,
decidono di chiamarlo I Tordi e di
autoprodursi un disco che descriveranno come «una sorta Super Pasqualone»
al cui interno si possono trovare i più disparati generi musicali.
SPOILER: Alla fine ci riescono davvero e, nel 2020,
esce “Pantamore”.
Il disco arriva nella tana di questa Cinghialesca WebZine e, per fortuna, ne
ascolto due/tre pezzi a caso.
Già in quel momento, il primo germe della conclusione a cui vi metterò davanti
a fine recensione si era instillato nel mio essere. Decido di scrivere del
disco, ascoltandolo per bene.
Premendo play,
si entra in questo spazio assurdo e vibrante che è la prima traccia, “Niente”.
Al suo interno ci siamo io ed i Tordi e, speranzosamente, mi chiedo se le
pareti sonore che ci circondano continueranno a squagliarsi così per tutto
l’album. Una cosa è certa: c’è qualcosa.
Qualcosa di spiazzante, qualcosa che non riesco a catalogare, con all’interno
un universo tutto suo, ma che fa un mondo di differenza.
Subito dopo, quello che ho appena ascoltato cede il passo ai Nirvana e ne sono
sconvolto.
“Non
ci sto dentro” cambia completamente la forma del duo rispetto a quello
che si era sentito in precedenza, ma non per questo quel qualcosa è meno riconoscibile. Si sente che ci mettono comunque del
loro, quella cosa lì, la risposta a quel «Questi qua ce l’hanno, ce l’hanno».
Signori Lettori, non saprei davvero come spiegarmi
meglio, al momento.
Su questa scia di cambiamento, la terza traccia – “Diverso”
– paralizza l’anima per la grande abilità di scrittura di cui fanno sfoggio i
Tordi in questo spazio di 3 minuti scarsi. È il classico caso in cui «non
è neanche quello che dice, è come lo dice», complice l’apprezzatissimo
lavoro di produzione che sa enfatizzare perfettamente il significato delle
parole: quel semplice e linearissimo messaggio, con in più una maestria tutta
loro.
È poi arriva lei. Così, di botto, senza un senso: “Noi
siamo i Tordi”.
È tutto qui.
È quel tocco in più che genera quel sorriso avente un unico, inconfondibile,
significato: Caz*o, SÌ.
Quel sorriso che ti parte in automatico
quando il «NOI SIAMO I TOOOOR-DI» del
ritornello esplode verso le più basse frequenze dell’animo umano. Potrei passare
un’ora a cercare di elencare tutte le analogie sonore che mi sembrano mischiate
in questo meraviglioso minestrone, ma non mi interessa neanche farlo. Questo
gruppo fugge dai miei schemi, è qualcosa di tutto suo, loro, proprio.
Tutto così sgranato, ipnotico, onirico. I Tordi ti tengono attaccato
all’ascolto di “Pantamore” perché,
adattando il loro personalissimo stile ad ogni cosa che toccano, ti trascinano
nei nuovi mondi che il duo vuole colonizzare. La chiusura, in quella maniera lì,
di un brano come “Sapone”, non me la sarei mai aspettata; arrivare a trovare lo
stesso elemento proprio dei Tordi nella
tamarrissima ma mai volgare “Scaduta” è appagante, soprattutto se
prima di quell’assolo mi fai quella parte lì.
Signori Lettori, mi accorgo di non star riuscendo
molto bene a spiegarvi «quella cosa lì in più» che sento nel
duo, spesso mi limito a parlare direttamente a loro, a farfugliare il mio
stupore mentre mi districo in quest’album.
La traccia n°7 è “Distorci”, che inizia
così grezza e cresce tra scale improbabili, ma di cosa stiamo parlando? Le note
sono piegate nella direzione per loro scelta dai Tordi, in uno spazio siderale,
che si svuota di suono all’improvviso, smorzandoti piacevolmente il fiato.
Prima di lasciarci, i Tordi ci salutano nel modo
migliore che potessi augurarmi.
Una soffice nuvola di canzone per salutarsi: “Leone o drago” si
specchia in una wave tutta nuova,
che, piano piano, fa scivolare la nostra mano dalla sua; l’ha afferrata ad
inizio album, e non l’ha lasciata fino ad ora, fino al taglio che chiude il
disco. Sfondo nero, fine. Ecco la musica cinematografica di cui parla il
gruppo.
Abbiamo finito e, in conclusione, non so cosa
diavolo ne sia uscito. D’altronde l’ascolto del disco è stato un viaggio con le
caratteristiche della trance
agonistica: mi ha lasciato devastato, scombussolandomi i sensi, e questo non
poteva che riversarsi nella recensione.
Sono sicuro di una cosa sola: i Tordi ce l’hanno.
Hanno quel personalissimo tocco in più,
inspiegabile, inafferrabile, insostituibile: loro sono i Tordi, e se mai gli si
sottraesse o aggiungesse qualcosa, non sarebbero loro.
Con “Pantamore”
ti fanno capire che hanno quella cosa che ti dà la sensazione di trovarti di
fronte ad un qualcosa di unico.
Vorresti tanto poterlo spiegare a tutti che cos’è, ma non conosci neanche tu il
termine giusto da utilizzare, perché ti hanno trasmesso la sensazione più
importante di tutte quando si ascolta un disco e non è facile descriverla.
Questa sensazione di esser stato lasciato senza parole, di non saper spiegare
bene cos’hanno di tanto speciale i Tordi, è tutto ciò che mi fa scegliere di
parlare a chiunque incroci di una Band piuttosto che di un’altra.
Ecco, penso che i Tordi abbiano questa cosa qui e insomma,
Signori Lettori, se non lo avete capito finora, per me è proprio questo il significato
di quell’aggettivo inspiegabile che ci siamo inventati su questa Cinghialesca WebZine Musicale di Dischi:
La Pelosità.
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