ANATOMIA DI UNA BAND: GIOCARE ALL'ALLEGRO CHIRURGO CON LO STATO SOCIALE



di Silvestro Perri



Se stai leggendo questo articolo e hai dai 25 ai 30 anni, hai visto nascere e crescere Lo Stato Sociale. La band bolognese è stata una delle prime a contribuire allo sviluppo dell’Indie italiano, consacrandosi con il loro primo album “Turisti della democrazia” nel novero degli artisti che portavano qualcosa di nuovo e fresco sulla scena musicale dello stivale. Ricordo ancora quando per la prima volta un compagno di scuola mi consigliò di ascoltare “Sono così indie”, o “Abbiamo vinto la guerra”. Cominciai a seguire con interesse la loro carriera, e addirittura arrivai a conoscerli di persona qualche anno dopo, passando un sabato sera universitario a bere e chiacchierare con due membri della band. True story.

Poi, il pata-trac. Non so individuare il punto di svolta, ma Lo Stato Sociale si è evoluto, o secondo alcuni pareri (tra cui il mio) involuto, in qualcosa di diverso. Il momento in cui ho deciso che avrei smesso di seguirli è ancora fresco nella mia memoria: ero ad una festa con amici, ed una ragazza insipida e insopportabile mise in tv il videoclip di “Amarsi male”. Trovavo ormai la loro musica insopportabile, e la figura del frontman Lodo Guenzi al limite del cringe.




Eppure non scrivo questo articolo al fine di criticarli, la mia intenzione non è nemmeno quella di convincere nessuno a smettere di ascoltarli. Nelle ultime settimane, per la prima volta da anni, ho ascoltato di nuovo la loro musica. E ho qualcosa da dire, che forse è qualcosa di bello. Le ultime fatiche discografiche della band bolognese mi ha spinto a partorire una riflessione che mi porto dentro la testa da tempo immemore.

Nel corso dell’ultimo mesetto e mezzo Lo Stato Sociale ha pubblicato cinque EP, ognuno dei quali ha il nome di un componente del gruppo musicale. Ognuno di loro ha scritto, arrangiato e cantato i cinque pezzi del proprio EP. Questa mossa si riconduce ad un fattore estremamente importante: Lo Stato Sociale non è un “gruppo musicale”. Infatti, per quanto gli eventi recenti (complice la sovraesposizione di Lodo Guenzi al Festival di Sanremo del 2018) me lo avessero fatto dimenticare, i cinque membri della band ci hanno sempre tenuto a ribadire che Lo Stato Sociale non fosse un “gruppo musicale”, bensì un collettivo.

Non andrò a recensire singolarmente ognuno di questi EP, ma li analizzerò con l’obbiettivo di rinforzare una metafora a me cara. Essendo un musicista, ed avendo suonato tanti strumenti in altrettanti gruppi musicali emergenti, ho pensato per anni che una band potesse essere paragonata ad una relazione sentimentale poli-amorosa. Tutti i membri si vogliono bene, ma alcuni più di altri, e nel momento in cui fanno l’amore sul palco, ognuno di loro rivela quale tipo di amante è: c’è il bassista che si sforza di fare bene il suo dovere senza strafare, il chitarrista che si masturba furiosamente con un assolo di chitarra infinito, il batterista convinto che sbattere il più veloce possibile sia piacevole per tutte le parti interessate, e potrei fare mille altri esempi. Ma questa metafora potrebbe essere difettosa, ed è stato proprio Lo Stato Sociale a darmi ispirazione per una nuova similitudine.




Il progetto “Attentato alla musica italiana”, che racchiude i cinque EP sopracitati, è un’operazione artistica, musicale e commerciale che ho amato, perché mi ha permesso di giocare all’allegro chirurgo con una band che conosco da tempo e verso la quale portavo rancore. E dopo aver partecipato a questo gioco, non ce l’ho più con loro.

Evidentemente non ero l’unico a disdegnare il ruolo di assoluta preponderanza mediatica che Lodo Guenzi aveva assunto nel progetto durante gli ultimi anni. Non ci sono notizie certe sui motivi che abbiano portato il collettivo indie a dividere le loro nuovi canzoni in base a fattori di autorialità e stile individuale, ma l’ipotesi alla quale più mi soddisfa pensare (pur essendo completamente campata per aria) è che, trovandosi in un momento di stallo e di crisi, i ragazzi abbiamo contemplato lo scioglimento, ma non trovando il cuore di separarsi, abbiano trovato il modo migliore per prendere ognuno la propria strada senza operare un taglio netto. Hanno lavorato ad un’uscita commerciale che ponesse di fronte al pubblico una partita dell’allegro chirurgo in cui gli organi non hanno una collocazione esplicita. 

Per anni ho desiderato riascoltare qualcosa da parte de Lo Stato Sociale che mi riportasse ai loro antichi fasti, e ascoltando i cinque EP ho potuto assegnare un ruolo ad ognuna delle cifre stilistiche che confluiscono nella band. Ho potuto fare della semplice matematica, capendo quali dei membri meritassero secondo il mio giudizio personale di influenzare maggiormente l’orientamento stilistico del collettivo. L’unica cosa certa è che mettersi così a nudo e contemporaneamente ostentare una tale paraculaggine, il tutto nello stesso atto discografico, non è facile. E lo dico con il massimo dell’ammirazione.




Brevemente, l’EP di Albi (che contiene “Combat Pop”, la canzone che hanno presentato a Sanremo) ha influenze elettroniche e pop-rock, e tende eccessivamente a presentare ritornelli cantati da più voci in coro, senza armonie complementari. Personalmente, questa è una delle cose che mi sono sempre piaciute meno de Lo Stato Sociale. Ora so di chi è la colpa.

L’EP di Carota è uno dei più sorprendenti: ha un approccio minimalista e alcune delle melodie più interessanti. La voce di Carota non è sicuramente accattivante, e il suo modo di cantare mi ricorda troppo l’odiosissimo Cesare Cremonini, ma credo che meriti di avere un ruolo maggiore all’interno del gruppo. E’ un musicista di cuore, di sostanza, e secondo me ci vede lungo.

Lodo non si smentisce. Fa quello che mi aspettavo da parte sua, in questo caso però senza essere mitigato dagli altri componenti; il risultato è un insieme di testi spesso poco interessanti, che spaziano dal semplicemente banale al cringe criminale. Solo lui può chiamare una canzone “L’amore è una droga” e riuscire ancora a guardarsi allo specchio. Si riprende nel pezzo che chiude il suo EP, in cui mostra di essere intimamente conscio del suo personaggio, e si fa volere bene nonostante le riserve. C’è comunque bisogno di un po' di Lodo nella nostra vita. Magari a dosi minori.

Checco mi ha stupito. La produzione del suo EP è superlativa. Nessuno dei suoni è spettacolare ascoltato da solo, ma il tutto si fonde in maniera giusta. Un tetris che colloca i pezzi al posto giusto, facendo scomparire una riga dopo le altre. Nessuna delle sue canzoni è super-orecchiabile, ma che sound! Alcune delle influenze musicali più belle del catalogo pregresso del collettivo sono chiaramente riconducibili a lui. 

Infine, Bebo. Bebo è sempre stato uno dei miei componenti preferiti del collettivo. Ora so anche perché. Il suo EP è interamente parlato. Ed è giusto così. La voce di Bebo è quella che riconosci per piccole frasi pronunciate nelle canzoni del primo album de Lo Stato Sociale. Mi ha sempre fatto ridere un sacco, e la sua ironia si è fatta sentire anche in questo EP. Voglio più Bebo in questa band. La sua “Sono libero” è, a mio parere, di gran lunga la canzone più bella tra tutte quelle di tutti gli EP. Non riesco a smettere di ascoltarla, e scommetto che nemmeno voi potrete. Nella mia personale partita all’allegro chirurgo, Bebo l’ho sollevato delicatamente, con delle pinze speciali, dalla cavità del cuore.




Quando parlo di musica, la mia conclusione è sempre la stessa, richiamo sempre i miei lettori ad ascoltare e riascoltare un album fino a coglierne ogni sfumatura. Anche questa volta ve lo chiedo, ma con una metodologia diversa: ascoltate le vostre canzoni preferite de Lo Stato Sociale, magari quelle che, se avete vissuto la loro musica con le mie stesse tempistiche, ascoltavate quando avevate 15 anni; poi ascoltate questi cinque EP. Capirete molte cose. E forse, come me, ritornerete a voler bene a questi ragazzi.

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