UN PICCOLO FRAMMENTO DI SEMPLICITÀ: “ALBUM” DI BOMBAY
di Saverio Marasco
«Com’è la tua casa senza di me?».
Con questa domanda inizia l’ultimo album – che si chiama proprio “ALBUM” (distribuito da Artist First e pubblicato da A Buzz Supreme) – di Gabriele Di Majo, in arte BOMBAY. Cantautore che si definisce «romano acquisito», Gabriele prende vita come cantautore nel 2014, autoproducendo e pubblicando tre lavori prima di questo del 2020: “Bombay” (2015), “Numero 2” (2016) e “Ritratto di Bombay” (2017).
Il disco parte facendo già sentire, nella prima traccia “ACAB”, un songwriting semplice, preciso e curato, con una voce solida e piena seppur imperfetta e amara. Ma soprattutto un genuino gusto per un sound retrò che strizza l’occhio al miglior pop datato.
Ma, se ho più volte affermato in questa Cinghialesca Webzine Musicale di Dischi che il pop, inteso come sentire comune, come canzone che può essere in parte recepita da chiunque, è, più che un genere, un obiettivo intrinseco dello storytelling di un bravo cantautore, saprete perdonarmi. D’altronde le belle canzoni sono un qualcosa che chiunque vorrebbe fare – ed ascoltare – anche in piccoli spazi, fatti e finiti, come quelli di “Francesco”, secondo pezzo di “ALBUM”.
Ma già al terzo pezzo, il ritmo scanzonato dei primi brani viene superato dal flash de “Gli amanti”: voce bassa, un po’ di melassa, un pad di synth in sottofondo alla chitarra acustica di Gabriele che però sa stupire l’ascoltatore con soluzioni melodiche – e quegli stacchi bellissimi – che fanno sorridere. In confidenza però, la fine mi lascia stranito, non ho ancora capito se in positivo o in negativo, devo ammetterlo.
Al momento giusto, invece, arriva il primo vero e proprio singolo del disco, “I nostri bambini”. Il brano, ballata pianoforte e voce, culla l’orecchio e fa vagare la mente tra storie di giovani che sono già diventati adulti senza nemmeno accorgersene. Il ritmo cresce bene, lontano, al posto giusto nei riverberi del pezzo: si prolunga all’infinito fino a diventare il tappeto di un effettatissimo assolo di sax di Umberto Smerilli che tende più al noise che alla melodia. Curioso.
Il disco prosegue con “Il cielo questo pomeriggio”, pezzo più spinto, groove e bassi predominanti. Temi cupi ma delicati, una marcia scandita dalla batteria di Marco Mirk e dal basso di Giacomo Nardelli. Entrano feedback vari, note altissime e distorte, forse ricordo di quelle sfaccettature più noise che iniziamo ad unire fra di loro, creando un quadro generale di Bombay. Qui invece la fine del brano è spettacolare, lasciandomi spettacolarmente stranito.
Questa bravura nello scrivere e nell’arrangiare emerge anche in quelli che, a mio modesto parere, sono i pezzi più deboli di “ALBUM”, come “Mauretto” e la successiva “Motown”. Mauretto non vuole andare ai rave. Si deve fare le analisi. Ha gli amici, gli piace passeggiare al parco in autunno. Mauretto pensa e ripensa, e vorrebbe dire questi pensieri a qualcuno. Questo il viaggio che questa canzone mi fa fare, solamente, con le parole. Ci penso ed è un dolce pensiero. Ho voglia di andare avanti però, ed arriva “Motown”, pezzo pulito, semplice, che però sa perdersi tra i ricordi della migliore musica leggera italiana anni cinquanta e sessanta. La canzone però, meriterebbe di andare oltre, magari coniugando le belle cose elettroniche che abbiamo visto finora. Già la ballad – mio dio quanto tempo che non lo dicevo. – “Poseidone” ritorna a coniugare scrittura, trovate compositive e un sound leggero, tremolante, ma distopico e crescente. In alcuni punti, vi giuro non so il perché, ripenso ai Baustelle ma nel senso di tutto ciò che di positivo trovavamo in loro: questo soprattutto alle voci intrecciate di Gabriele e Francesco Forni che, oltre a suonare le chitarre qui ed nella quinta traccia, è dietro le seconde voci del brano.
Cambiando discorso, se finora ho menzionato le chiusure dei brani, il Premio miglior apertura, in questo disco, va sicuramente a “Se vabbè”. Nono pezzo dell’album, dal vivo, con la band, lo suonerei a duemila. E spero anche Gabriele.
Nel mentre però, arriva la chiusura di questo “ALBUM”: è dolce, fluttua sugli armonici delle chitarre. “Il tuo asciugamano” è un pezzo intimo, sommesso: una delicata ninnananna speranzosa, in un mondo che di speranza ultimamente ce ne sta regalando davvero poca.
Attraverso una voce non certo delle più particolari, ma certamente all’altezza del compito di trasmettere una scrittura – ed una composizione – ricca e ben fatta, gli strumenti in questo brano suonano piano e, come le 10 tracce di questo disco, si collocano ognuno al proprio posto con la propria piccola cosa, con il proprio piccolo spazio, con il proprio piccolo frammento di semplicità.
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