QUELLA CERTA TENDENZA DELLE PECORE NERE: “NON NEL MIO MARE” DEI BAD BLACK SHEEP
C’è una certa tendenza da qualche anno nel nostro paese a rendere il rock suonato nelle cantine, nei garage, nei pub: renderlo più duro avendo ormai di default i geni delle migliori band della scena alternativa degli anni ‘90, renderlo più urlato nel cantato, renderlo più empatico nei testi e renderlo più ampio possibile nel sound.
I Bad Black Sheep – Filippo Altafini (basso e voce), Francesco Ceola (chitarra) e Gregory Saccozza (batteria) – potremmo collocarli esattamente all’inizio di questo percorso che i tre musicisti di Vicenza hanno iniziato con “1991” (2013, Valery Records) e che proseguono con questo loro “Non nel mio mare”, pubblicato quest’anno per LaCantina Records.
Il loro secondo disco inizia di botto, subito, con l’urlo d’apertura di “Venezia”, pezzo vivace che, se tutto il disco manterrà quest’impostazione, ci regalerà sicuramente sonorità interessanti: si sentono i grupponi alternativi da stadio nelle parti melodice – penso, in questo pezzo, ai Kings of Leon in primis – e si sentono i gruppi nostrani che hanno fatto una summa di quello che accennavo prima, quelli del filone indie che strizza di più l’occhio al post-hardcore, Cara Calma o Voina su tutti.
Questo sound continua in “Esodo”, che sviluppa molto meglio i riferimenti musicali di cui stiamo parlando. Un testo leggero da mezzo singolo e belle soluzioni stilistiche nella strumentale, in cui una chitarra snellita da quelle notine in più che ho giudicato ridondanti nell’assolo del primo pezzo, qui e nel pezzo successivo “Il nostro più”, trovano gli spazi giusti: i riff sono precisi e studiati, con un gusto per la musica rock che, nel terzo pezzo, mi fanno addirittura prendere un infarto con l’attacco del riff, che ve lo giuro ricorda “la vita è breve”, sapetevoidichi.
Vabbè, è giusto scriverlo: il bellissimo meraviglioso – ed ormai sciolo – Teatro degli Orrori di Pierpaolo Capovilla & co.
A questo puto dell’album, neanche a metà, i riferimenti dei Bad Black Sheep sono piuttosto chiari: un rock alternativo al servizio delle canzoni. Filippo, Francesco e Gregory inanellano con “Lì dentro” un altro tassello nel consolidamento del loro stile nella direzione del sound già citato, con i loro ritornelloni.
Siamo arrivati alla traccia numero 7: il vero singolo dell’album, che nella sua prima strofa dà il nome a questo “Non nel mio mare”. “Prescrizione” è un titolo che, a leggerlo, mi fa ridere. Proprioammmme che sto impazzendo nello scrivere la mia Tesi di laurea in Giurisprudenzamannaggiamannaggiamannaggia.
Ma ho capito benissimo il messaggio di questa canzone, e sono sicuro che chiunque lo potrebbe capire: cosa ti devo, persona, società, mondo, ora? Non sai che dopo un bel po’ di tempo, le cose non si possono più pretendere? Perché qui il messaggio è semplice: o ci stai o non ci stai.
Il disco della band vicentina si chiude con due forse: quello di “Ci aspettavamo” e quello dell’ultima traccia, “Ti nasconda”.
Arrivano dopo un paio di pezzi – “In itinere” e “Tutto sarà diverso” – che a mio gusto allungano l’album senza veramente dargli tanto. Chiariamoci: sono due pezzi prodotti e pensati qualitativamente mantenendo il livello di tutto l’album – registrato e mixato da laCantina Records, masterizzato da Enrico Bellaro – ma a questo punto dell’ascolto, forse non ne sentiamo davvero il bisogno. Però di quei due “forse” di cui parlavo prima, sicuramente sì.
Il primo lo troviamo nella traccia numero 10, che mi porta ad un ripensamento doveroso: è questa la ballata acustica dell’album. Più intima di “Caporale”, ve la sconsiglio. Ve la sconsiglio vivamente. Soprattutto se, come il me di adesso, avete bevuto qualche bicchiere di Vecchia Romagna in più. Non vi farà piangere, sarebbe troppo facile. Piangere libera. Qui, invece, c’è un magone allo stomaco, una nostalgia delle lacrime già asciugate, che nella sua semplicità, se siete nel mood in cui sono io ora, riuscirà a scalfirvi.
Il secondo forse conclude il disco, ed è quello di “Ti nasconda”.
Il titolo lo trovo davvero bellissimo, non so perché.
Le nostre pecore nere chiudono il loro album senza distaccarsi dal loro sound, ma con un pezzo più grosso, con un tappeto sonoro che va man mano a strizzare l’occhio ai grandi spazi dell’elettronica.
A questa band direi di non perdere il gusto per il rock alternativo, per il gridare, per il pestare sulle canzoni.
MA gli direi soprattutto di non fermarsi qui. Di proseguire sulla strada dell’alternatività, sui momenti elettronici, non smettendo mai di gridare. Anzi, cari Bad Black Sheep, forse è l’ora di tornare a gridare ancora di più, in ogni modo ed in ogni strada nuova che musicalmente avrete l’ardire di intraprendere.
E sapete perché?
Perché ogni lasciata è persa.
E soprattutto perché, ai sensi dell’articolo 2934 Cod. Civ., «Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge».
Vabbè, scusate: se non lo avessi scritto, me ne sarei pentito.
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