LA BANALITÀ DEL BENE: “UNFAMILIAR SONGS” DI PALM DOWN

 

di Saverio Marasco 

 

Inizio a scrivere questa recensione in uno dei giorni più miserabili dell’anno: un piovosissimo 2 gennaio, seduto ad un tavolino, con il mio cappello di lana floscio in testa, un maglione amaranto slabbrato e quella catena, quella maledetta catena, stendardo di un’adolescenza che non vuole finire, a pendermi sulla coscia.  
Sorseggio Cynar con ghiaccio, ascolto Tom Waits in sottofondo e tra poco mitigherò il freddo appoggiandomi il giubbino di pelle sulle spalle. Scrivere un articolo, in una scena del genere, è uno dei cliché più banali che ricorderete.  

 
A guardarla dal vivo, vi assicuro, non è così affascinante. Ma leggere, aver descritto o ascoltare – nel nostro caso – una cosa così, nella sua banalità, scalderà sempre il cuore dei tristi sognatori come noi. 


Ed eccovi la metafora di inizio recensione, con la quale vi porto ad “Unfamiliar Songs”, secondo album di Francesco Zappia, in arte Palm Down, autoprodotto e pubblicato lo scorso 30 ottobre e contenente i b-sides tratti dal primo e vero proprio album di debutto Unfamiliar Air in Familiar Places (2019), successivo all’Ep “Nosedive” (2017). 



Francesco fa il cantautore acustico e neo-folk dopo aver militato in un gruppo punk (Last Heart Attack). Un altro cliché che si conosce bene, ma che spesso – e lo so per certo, fidatevi – è un punto naturale al quale spesso, un musicista con questo background arriverà. Un cliché di quelli che in fondo molti conoscono, di quelli che in fondo vanno sul sicuro. Ma il succo della questione è che tanto, finito il Cynar, si ritorna sempre al caro vecchio Campari. 
Quest’attitudine è già messa in luce dal primo pezzo, “Dots”, una buona ballata alla Billie Joe Armstrong et similia 


Ma il piglio pop punk – che in quest’album non andrà da nessuna parte, sarà sempre una colonna portante – si sviluppa nel migliore dei modi nel secondo brano, la cover di “Black Chandelier dei Biffy Clyro. Qui un ottimo arrangiamento delle chitarre acustiche favorisce e supporta lo stile di Palm Down. Senza vergogna dico che, non seguendo la Band, se non lo avessi scoperto non mi sarei mai reso conto di star ascoltando una cover  


Andiamo avanti ed incontriamo il singolo sicuro del lavoro, “This year is mine alone”, nella quale, riascoltandola con attenzione, iniziano ad arrivarci in maniera più chiara i pregi di questo cantautore: una grande pulizia esecutivo in quello che suona e la capacità di andare, attraverso la melodia della voce, verso note bassissime che, personalmente, mi fanno dire “ahppperò, bravo” 
Lo stile di Francesco ormai è chiaro ed anche in “Waving at Us” viene riconfermato in pieno. Ma sarà con la traccia di chiusura che mi verrà in mente ogni bene per questo cantautore. 




The Shore (Reimagined) è una bella ballata che coniuga alla classica ricetta di Palm Down una ricerca sonora diversa, penetrante. Questa, unita alle solite soluzioni sorprendenti che il Francesco compositore – a questo punto, l’occhio è quello – inserisce qua e là nel pezzo, creano la perfetta atmosfera rarefatta ma piena che, dolcemente e cullandoci, ci fa finire il disco.  

Se ci fosse spazio per un ultimo cliché, direi a Palm Down di giocare più sul suono, di espandersi verso elementi elettronici. Ma non dirò niente di tutto ciò. 


Quello che voglio dirgli, al contrario, è di riesplorare le radici del songwriting post anni ’90, partendo da Elliott Smith per finire a Kurt Vile, in modo da avere un bel manuale propedeutico ad uno sviluppo ancora più preciso e puntuale delle già buone intuizioni sonore che questo bravo ragazzo romano riesce, spontaneamente e con semplicità, a trovare: non un vincolo bensì un modo per carpire – e capire – a pieno la propria identità cantautoriale. 
E prova a scrivere in italiano ragazzo mio, è ora di iniziare a farsi capire. 
 

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